Ed io contavo i denti ai francobolli - db-

22.07.2012 19:45

….ed io contavo i denti ai francobolli… (F. De Andrè)

 

Non possiedo alcun talento per le chiacchere inutili, limitazione grave per le mie relazioni.

Arrivo speditamente al nocciolo della questione e ciò viene interpretato come supponenza o, peggio, come arroganza.

Scarso talento quindi anche nel trasmettere la mia vera essenza, che al contrario delle apparenze e’ tesa esclusivamente allo sviscerare opinioni, ascoltate con il minimo del pregiudizio (e disposta a mutarle) ma risulto estremamente irascibile, lo riconosco, quando esse pretendono di divenire un tutt’uno col fatto.

Ad esempio: se piove possiamo discernere piacevolmente sul perché accade, sul quanto piove e se continuerà. Ma non sopporto sentirmi dire “dai, che e’ solo un po’ nuvolo”.

In tal caso la parte peggiore di me salta fuori e, vigliaccamente mi defilo.

D’accordo: e’ un atteggiamento che non paga.

Non ho tempo, intenta come sono a masticare la vita metro per metro spurgandone a priori gli orpelli.

Poche righe, per un profilo psicologico sintetico ed abbastanza esauriente, condiviso da tanti ma poi inapplicabile per il privilegio perenne della forma sulla sostanza.

Hai mai provato a muovere una critica adulta e serena –non dico ad un’amica- ma a tua madre, colei che l’immaginario universale rappresenta come l’amore disinteressato per antonomasia? Apriti cielo! Perché tutti vogliamo il rapporto sincero, purche’ lusinghi.

 

In queste sabbie mobili mi dimenavo con la solita ed inutile circospezione in attesa che arrivasse l’autobus che mi portava dal dentista.

Traffico intenso, caotico, esasperato dai lavori in corso per la predisposizione del manto stradale ad un nuovo mezzo di trasporto su gomma a fibre ottiche.

Un’attesa di dieci minuti –sufficienti a leggere tutte le inserzioni del circondario, controllare se la numerazione delle targhe delle auto ha raggiunto la lettera F- mentre scandaglio gli avventori della fermata valutandone età, attitudini umore e vestiario. La curiosità non e’ mai inutile; un paio di pantaloni od una borsetta sono indicatori sociali formidabili . Ed infine lo stato dei pneumatici dell’ 11bis in arrivo.

Il dentista sbriga il suo lavoro lentamente , per suggellare una professionalità esibita, come tutti i medici-sacerdoti del tempio cui noi comuni mortali affidiamo il bene più prezioso.

Sei solo un dentista, certo non potrai mai dirmi frasi del tipo “le rimangono solo due mesi di vita” e considero una sua seduta appena più fastidiosa di quella dal parrucchiere.

Siamo alle solite, non posso certo dirglielo. Lo lascio pontificare sulla difficoltà di questa devitalizzazione gratificando il suo ego col mio silenzio ed il pagamento della parcella.

Esco dallo studio, passando dalla sala d’aspetto incrocio persone che paiono desiderose di salutarmi, quasi per scrutare con un cenno di cortesia un indizio sulla riuscita della seduta, che vada così a confutare la buona scelta del professionista.

Trovo più complicità in questa contingenza ambulatoriale che in tanti miei convivi di altra natura.

L’aria e’ tersa, mi godo un caffè nel primo bar che inconto per mitigare l’aspro sapore dell’anestesia e con la bocca gonfia e storta mi avvio a piedi verso casa.

Penso a quanta gente governa le strade del centro, chi carico di sporte della spesa, chi sciupando il tempo ciondolando annoiato o chi si sposta affannato  brandendo a mo’ di sfollagente borse 24 ore.

Mi godo la passeggiata, orgogliosa dell’utilizzare il tempo a mio favore, facendo o disfacendo, ma rispettandolo nell’esonerarlo dallo stare.

Ho preso un giorno di ferie, le dieci del mattino, marito in studio e figli a scuola e facendo un rapido conto rimangono sei ore tutte per me, cosa che accade più di rado di un’eclisse di sole.

Continuo a camminare, ma non avendo ipotizzato il rientro a piedi mi accorgo di avere sbagliato scarpe ed entro in una farmacia per comprare dei cerotti.

Saranno le vesciche; il buon umore di qualche istante prima non lo avverto più così deciso e partono alla velocità di un computer di generazione ancora a venire tutte le informazioni atte ad indagarne la causa.

La risposta non tarda ad arrivare.

Che cosa posso fare? Sei ore sono tante, sono poche, sono un’opportunità per stare un po’ con me stessa, coccolarmi ed altre amenità simili. Tuttavia non c’e’ niente di più stressante del rilassamento forzato.

Ed allora? Mi sento come un cane che ha sempre vissuto con la catena; la prima volta che gliela tolgono finisce diritto sotto un camion. Paladina del buon utilizzo del tempo sono smarrita.

Nel frattempo, grazie ad un inesistente senso dell’orientamento, sono di nuovo davanti al bar dove ho preso il caffè. Mi sento persa.

Ecco cosa vorrei: ho trovato; un sogno proibito, una vera trasgressione.

Voglio non pensare per sei ore, anzi un po’ meno. Un quarto d’ora e’ già passato.

Perfetto, l’obiettivo e’ fissato; ora si tratta di pensare come raggiungerlo.

No. Non devo pensare, e’ vero. Come si fa? Ecco, respiro, trattengo il fiato e lo espello il più lentamente possibile col risultato che mi gira la testa.

Lo sapevo: l’anestesia, il caffè a stomaco vuoto, il caldo, forse avrei dovuto mangiare qualcosa a colazione.

Mi tengo il mal di testa, mangerò poi. Dove mangio? Chiamo un’amica o mi allungo sul divano? E se vado a casa non e’ che poi mi metto a stirare?

Sono passati pochi minuti sufficienti a comprendere l’inapplicabilità dell’obiettivo in quanto per me e’ più facile un’apnea di respiro che di pensiero.

Allora, idee, avanti. Su ragazze!! Libere, senza paura.

Beffardamente mi sto rendendo conto di avere raggiunto il primo obiettivo perché non mi viene in mente nulla.

Non sto pensando a niente, e’ uno strano stato, neanche divertente e comunque non durerà a lungo.

Riprendo a pensare chiedendomi che cosa posso fare e sta diventando un’ossessione.

Sono il cane alla catena senza catena.

Perché voglio fare qualcosa di gratificante, ed e’ una bella pretesa per un soggettino come me ed in questo lasso di tempo.

Tralascio le opere pie. Cos’e’ che mi gratifica? C’e’ poi il problema che lo conosci dopo se un’esperienza e’ stata gratificante o no.

Magari saranno le tende pulite che mi renderanno una donna migliore stasera piuttosto che un french alle unghie dei piedi.

Tanto sarà una serata mediocre, il crepuscolo di una giornata buttata via. Ma no, razza di ingrata, il dentista ti ha salvato la vita.

Mi sento sola e lo stato anelato si rivela solo fonte di aspettative e problemi. Che cosa voglio? Se so chi sono, come faccio a non sapere che cosa voglio?

Forse devo andare dalla parrucchiera per vedere se quell’ambiente fiera-della-banalità mi anestetizza un po’.

Mento, non ci andrò di sicuro perché mi sto compatendo crogiolandomi con tanto di cuffie isolanti a massimo volume in un delirio di commiserazione.

Basta infierire, il pilota automatico mi viene in soccorso riportandomi a casa.

Prendo l’ascensore, mi tolgo le scarpe mentre cerco le chiavi e varco una casa calda, buia, con l’odore del fritto della sera prima e in disordine; i bambini anche stamattina non hanno avuto alcuna pietà lasciando stoviglie e calzini sporchi in ordine sparso.

Non voglio vedere, se no e’ finita. Non posso sprecare il mio tempo per qualcosa che comunque prima o poi verrà fatto.

Il telecomando e’ mio, ma non dovendolo contendere perde d’interesse come la postazione Internet.

Leggere no, lo farò stasera durante la Champions League.

Sdraiati, che hai anche mal di testa.

Chiudo gli occhi…che silenzio..quasi quasi..

Ecco, vorrei sprofondare in un dormiveglia coi sogni a richiesta, tipo juke-box.

Selezione 1, viaggio d’avventura. Selezione 2, sesso. Selezione 3 (la migliore) volare e così via.

Che fai? Ti metti a pilotare anche il subconscio? Dai, lasciati andare, almeno nei sogni non c’e’ catena.